A Giovanna poesia di Giorgio Orelli
C’era una gran calma. E poiché
non eri riuscita a mangiare il carillon
né il leprotto né il barboncino bianco
né quell’altro bestiolo che neanche tua madre
sa se sia un asinello o un cavallino
o altro che ai nostri tempi scarseggia,
dopo l’amen del rutto ti portammo un po’ fuori.
C’era proprio una gran calma domenicale, e una nebbia
leggerissima, tinta d’azzurro
donde a un tratto emergevano castelli
senza una goccia di sangue, pali
da vigna bianchi, toccati
di verderame, fuggenti sui pendii,
rocce striate di sonno.
………………..Oh non vacillavamo nella nebbia
tua madre ed io, tu ci tenevi d’occhio
anche dormendo, andavamo pian piano,
molto di qua dal fiume andavamo pian piano
su quell’isola appena riemersa, tra quei pascoli alti,
per campi lieti di trasudare,
e dalla nebbia innocente giungevano gridi
simili a quelli dei tuoi piccoli animali,
e avessi visto come correva l’agnello
colore del prato invernale
dov’era rimasto solo.
A metà strada incontrammo altre madri,
altri padri, con la Paola nata
poco prima di te, con la Maura nata poco dopo,
ma tu ti chiamavi Giovanna, e, mentre le mamme
che non si conoscevano, nemmeno dalle lezioni serali
di ginnastica (senza cappello la tua, quel cappello
per cui cento pernici sono morte),
dicevano il colore degli occhi e dei capelli
e il tempo non passava, noi padri, vecchi amici, un po’ più [in là,
per far qualcosa ci coprimmo di nebbia
a segno che le madri ci chiamarono
come fossimo andati lontano.
Tornammo per la strada maestra
e fu tutt’altra cosa: la nebbia inghiottiva i palazzi,
convocava timori intorno a noi.
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