L’opere e i giorni poesia di Gabriele D’Annunzio
O sposo della Terra venerando, è bello a sera noverare l’opre della dimane e misurar nel cuore meditabondo la durabil forza. Veglio, la tua parola su me piove candida come il fior del melo allora che già comincia ad allegare il frutto. Parlami, e dimmi quali sieno l’opre. “Di questo mese m’apparecchio l’aia. La mondo e sarchiellata lievemente la concio con la pula e con la morchia sicché difenda la biada da topi e da formiche e d’altra gente infesta. E poi la piano con la pietra tonda, o con legno; o pur suvvi spargo l’acqua e suvvi metto le mie bestie, e bene cò piedi lor la faccio rassodare; e poi si secca al sole” il veglio dice. E sta su la sua soglia rinnovata di quella pietra ch’è detta serena (nasce del Monte Céceri in gran copia) schietta pietra, pendente nell’azzurro alquanto, di color d’acqua piovana ove cotta la foglia sia del glastro. E dietro la sua faccia, che la grande etade arò con invisibil vomere sì che raggia di curvi e retti solchi qual iugero già pronto alla sementa, sale su per lo stipite di pietra il bianco gelsomin grato alle pecchie, eguale di candore al crin canuto. “Di questo mese nel solstizio, quando il Sol non puote più salire, semino le brasche; le quà poi di mezzo agosto trapiantar mi bisogna in luogo irriguo. E la bietola e l’appio e il coriandro e la lattuga semino, ed innacquo. Colgo la veccia, e sego per pastura il fien greco. La fava anzi la luce vello, scemante la luna; la fava, anzi che compia lo scemar la luna, batto; e refrigerata la ripongo. Di questo mese inocchio il pesco, impiastro il fico, vòto l’arnia, il condottiero eleggo nel gomitolo dell’api. E prossima si fa la mietitura dell’orzo, la qual compiere mi giova anzi che mi comincino a cascare le spighe, imperocché non son vestite sue granella di foglie, come il grano. Da giovine sei moggia il dì potei segarne!” sorridendo il veglio dice. Ancora armata è la gengiva, salda nel suo sorriso e nella sua favella. E non pur gli vacillano i ginocchi, se ben la falce nell’oprare gli abbia a simiglianza sel suo ferro istesso curve le gambe. E sopra il santo petto il lin rude, che l’indaco fè quasi celeste, crea misteriosamente l’imagine di Pan duce degli astri, cui nel torace si rispecchia il Cielo.
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