Xenia I poesia di Eugenio Montale

– 1 –

Caro piccolo insetto
che chiamavano mosca non so perché,
stasera quasi al buio
mentre leggevo il Deuteroisaia
sei ricomparsa accanto a me,
ma non avevi occhiali,
non potevi vedermi
né potevo io senza quel luccichio
riconoscere te nella foschia.

– 2 –

Senza occhiali né antenne,
povero insetto che ali
avevi solo nella fantasia,
una bibbia sfasciata ed anche poco
attendibile, il nero della notte,
un lampo, un tuono e poi
neppure la tempesta. Forse che
te n’eri andata così presto senza
parlare? Ma è ridicolo
pensare che tu avessi ancora labbra.

–  3 –

Al Saint James di Parigi dovrò chiedere
una camera ‘singola’. (Non amano
i clienti spaiati). E così pure
nella falsa Bisanzio del tuo albergo
veneziano; per poi cercare subito
lo sgabuzzino delle telefoniste,
le tue amiche di sempre; e ripartire,
esaurita la carica meccanica,
il desierio di riaverti, fosse
pure in uno solo gesto o un’abitudine.

– 4 –

Avevamo studiato per l’aldilà
un fischio, un segno di riconoscimento.
Mi provo a modularlo nella speranza
che tutti siamo già morti senza saperlo.

– 5 –

Non ho mai capito se io fossi
il tuo cane fedele e incimurrito
o tu lo fossi per me.
Per gli altri no, eri un insetto miope
smarrito nel blaba
dell’alta società. Erano ingenui
quei furbi e non sapevano
di essere loro il tuo zimbello:
di esser visti anche al buio e smascherati
da un tuo senso infallibile, dal tuo
radar di pipistrello.

– 6 –

Non hai pensato mai di lasciar traccia
di te scrivendo prosa o versi. E fu
il tuo incanto – e dopo la mia nausea di me.
Fu pure il mio terrore: di esser poi
ricacciato da te nel gracidante
limo dei neòteroi.

– 7 –

Pietà di sé, infinita pena e angoscia
di chi adora il – quaggiù – e spera e dispera
di un altro… (Chi osa dire un altro mondo?).
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
‘Strana pietà…’ (Azucena, atto secondo).

– 8 –

La tua parola così stenta e imprudente
resta la sola di cui mi appago.
Ma è mutato l’accento, altro il colore.
Mi abituerò a sentirti o a decifrarti
nel ticchettìo della telescrivente,
nel volubile fumo dei miei sigari
di Brissago.

– 9 –

Ascoltare era il solo tuo modo di vedere.
Il conto del telefono s’è ridotto a ben poco.

– 10 –

« Pregava? ». « Sì, pregava Sant’Antonio
perché fa ritrovare
gli ombrelli smarriti e altri oggetti
dal guardaroba di Sant’Ermete ».
« Per questo solo? ». «Anche per i suoi morti
e per me ».
« È sufficiente » disse il prete.

– 11 –

Ricordare il tuo pianto (il mio era doppio)
non vale a spenger lo scoppio delle tue risate.
Erano come l’anticipo di un tuo privato
Giudizio Universale, mai accaduto purtroppo.

– 12 –

La primavera sbuca col suo passo di talpa.
Non ti sentirò più parlare di antibiotici
velenosi, del chiodo del tuo femore,
dei beni di fortuna che t’ha un occhiuto omissis
spennacchiati.
La primavera avanza con le sue nebbie grasse,
con le sue luci lunghe, le sue ore insopportabili.
Non ti sentirò più lottare col rigurgito
del tempo, dei fantasmi, dei problemi logistici
dell’Estate.

– 13 –

Tuo fratello morì giovane; tu eri
la bimba scarruffata che mi guarda
‘in posa’ nell’ovale di un ritratto.
Scrisse musiche inedite, inaudite,
oggi sepolte in un baule o andate
al màcero. Forse le riinventa
qualcuno inconsapevole, se ciò ch’è scritto è scritto.
L’amavo senza averlo mai conosciuto.
Fuori di te nessuno lo ricordava.
Non ho fatto ricerche: ora è inutile.
Dopo di te sono rimasto il solo
per cui egli è esistito. Ma è possibile,
lo sai, amare un’ombra, ombre noi stessi.

– 14 –

Dicono che la mia
sia una poesia d’inappartenenza.
Ma s’era tua era di qualcuno:
di te che non sei più forma, ma essenza.
Dicono che la poesia al suo culmine
magnifica il Tutto in fuga,
negano che la testuggine
sia più veloce del fulmine.
Tu sola sapevi che il moto
non è diverso dalla stasi,
che il vuoto è il pieno e il sereno
è la più diffusa delle nubi.
Così meglio intendo il tuo lungo viaggio
imprigionata tra le bende e i gessi.
Eppure non mi dà riposo
sapere che in uno o in due noi siamo una cosa sola.

Da “Satura”

 

 

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